A distanza di sei anni dall’introduzione dell’istituto della ‘Transazione fiscale’ a mezzo dell’art. 182-ter L.F., ancora permangono dubbi sulla sua legittimità costituzionale, legati per lo più all’esistenza del principio ricondotto all’art. 53 cost., dell’ ‘indisponibilità del credito tributario’, che difficilmente sembrerebbe conciliarsi con lo schema della ‘transazione’ sul quale appare prima facie interamente costruito l’istituto.
Pur non avendo finora fatto registrare sul campo un’estesa applicazione, nel prossimo futuro si può ipotizzare un suo maggiore utilizzo a causa della profonda crisi economica in atto; pertanto, potrebbe assumere valenza non solo didattica, un’indagine volta ad individuare eventuali contrasti tra la nuova figura ed i principi supremi dell’ordinamento.
Escludendo in partenza – anche contro qualche diverso parere – che il contrasto derivi dalla stessa rinuncia all’entrata fiscale disposta comunque con legge ordinaria (al pari, d’altronde, di quanto è avvenuto per anni con i condoni fiscali), l’esame va condotto sui criteri di applicazione dell’istituto, poiché è nella interpretazione del ruolo che il legislatore ha inteso attribuire alla P.A., che può insidiarsi il rischio di incostituzionalità.
Più in particolare il momento topico è rappresentato dalla formazione della volontà dell’amministrazione finanziaria, chiamata a dare o negare il consenso alla proposta ‘transattiva’ del privato, perché se si ritiene di ricondurre tale processo decisionale nell’ambito della ordinaria discrezionalità amministrativa, si rischia di riconoscere del ‘potere dispositivo’ sul credito tributario non più soltanto al legislatore, ma anche alla stessa amministrazione finanziaria, il che potrebbe far sorgere sospetti di incostituzionalità dell’istituto sotto vari profili. Questa, infatti, di fronte alla proposta del privato, verrebbe a godere di una libertà decisionale nella quale, come accade in tutte le scelte afferenti la gestione della cosa pubblica, sarebbe guidata, pur nel rispetto dello scopo perseguito dalla legge, solo dal risultato di proprie autonome valutazioni.
Non v’è dubbio che vada proprio in questa direzione l’interpretazione data dalla Direzione Centrale dell’Agenzia delle Entrate nella circolare 18 aprile 2008, n. 40 nella quale si esortano le agenzie territoriali a tener conto nelle decisioni concrete, degli “obiettivi sottesi alla riforma organica delle procedure concorsuali e, di conseguenza, all’istituto della transazione fiscale” (cfr. sub par. 5.5) ed a valutare la proposta del privato anche alla luce “degli altri interessi coinvolti nella gestione della crisi, quali, ad esempio, la difesa dell’occupazione, la continuità dell’attività produttiva, la complessiva esposizione debitoria dell’impresa, oltre alla sua generale situazione finanziaria e patrimoniale (ad esempio, la tipologia dell’attività svolta, le diverse componenti positive di bilancio, la consistenza immobiliare e la presenza di eventuali garanzie)”.
Ma è davvero possibile – bisogna chiedersi – che la decisione finale sulla disposizione del credito tributario, possa essere assunta caso per caso dalla P.A., sulla base di proprie autonome valutazioni su aspetti specifici del singolo caso e, per giunta, tanto complesse e delicate? O non risulta forse eccessivo legare l’applicazione concreta dell’Istituto e, quindi, la decisione sulla rinuncia al credito tributario, che già in astratto suscita in qualcuno qualche sospetto di costituzionalità, ai convincimenti dei vari dirigenti degli uffici tributari?
La prima riserva sulla legittimità di tale impostazione, deriva dalla considerazione che in questo modo certamente non verrà mai rispettato il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, giacché risulta difficile anche solo ipotizzare che in tutti gli uffici dislocati lungo l’intero territorio nazionale, possano essere usati gli stessi parametri di valutazione. Non solo, ma la peculiarità di ciascuna crisi d’impresa, specialmente alla luce dei numerosi aspetti che secondo la circolare devono essere presi in esame, impedirebbe anche la stessa verifica del rispetto della parità di trattamento. Il privato, allora, sarebbe costretto ad abbandonarsi all’insindacabile giudizio dell’Ufficio, la cui decisione risulterebbe incensurabile proprio sotto uno degli aspetti maggiormente sintomatici dell’eccesso di potere, ovvero quello della ‘disparità di trattamento’.
Inoltre, un’applicazione dell’Istituto rimessa in così larga parte alle determinazioni della P.A., difficilmente potrebbe essere conciliata con la riserva di legge che notoriamente regola la materia tributaria, con la conseguenza che i sospetti di incostituzionalità, a questo punto, potrebbero non essere superati.
Di fronte a tali dubbi, allora, si potrebbe tentare una differente lettura della norma, che ci permetta di scongiurare i rischi prospettati, cercando un sistema attuativo dell’Istituto che, nel rispetto innanzitutto del principio della riserva di legge, assegni un ruolo predominante a quella che risulta essere la volontà del legislatore, così come positivizzata nella lettera dell’art. 182-ter.
Questo articolo, in effetti, non sembra che attribuisca particolari poteri decisionali all’amministrazione finanziaria, in quanto non indica i criteri guida per una decisione potenzialmente rimessa alla discrezionalità della P.A., ma contiene scelte che sembrano già compiutamente adottate dallo stesso legislatore e che non abbisognano di ulteriori processi valutativi sui singoli casi concreti.
Il contenuto dell’articolo, in altre parole, già consentirebbe da solo di verificare se una determinata proposta transattiva possa o meno essere accolta, essendo in esso espressamente previsto che il trattamento riservato al credito tributario, nel caso in cui sia assistito da privilegio, non debba essere inferiore, quanto a percentuale, tempi di pagamento e garanzie, a quello previsto per i crediti “che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica ed interesse economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie” e che, nel caso di credito chirografario, “il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisioni in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole”.
In questa prospettiva, l’amministrazione finanziaria sarebbe chiamata a dare l’assenso alla proposta transattiva, dopo aver semplicemente verificato la sussistenza delle condizioni indicate direttamente dal legislatore. In questo modo, essa verrebbe a svolgere un compito che non sarebbe più di scelta discrezionale, ma di puro accertamento tecnico, con tutte le conseguenze in ordine alla impugnabilità delle sue decisioni, non più coperte dalla insindacabilità delle decisioni discrezionali, ma passibili di censure sotto il profilo dell’errore o travisamento dei fatti, con apprezzabile estensione delle garanzie di tutela del cittadino.
Il voto espresso dalla P.A., apparirebbe così, del tutto svincolato da valutazioni attinenti al merito della proposta, le quali rimarrebbero affidate esclusivamente agli altri creditori. Questo sistema, peraltro, presenterebbe il vantaggio di riservare la decisione sul sostegno dell’impresa in difficoltà, ai creditori privati, ovvero agli stessi operatori del mercato, che, grazie ai rapporti economici e commerciali, meglio conoscono, rispetto ad una pubblica amministrazione spesso così aliena, l’effettiva situazione dell’azienda in crisi, le sue reali potenzialità e le prospettive di superamento delle difficoltà finanziarie.
La norma, infatti, evidenzierebbe l’intento del legislatore di ancorare le sorti del credito tributario a quelle degli altri crediti e ciò non solo per la scelta di abdicare in favore dei privati, alla decisione sulla meritevolezza della proposta, ma anche perché le condizioni di trattamento del credito tributario, vengono fissate con riferimento alle offerte formulate per i crediti privati. Questa linea legislativa, d’altronde, sicuramente si concilia con la tendenza, di ormai lungo corso, ad eliminare le posizioni di privilegio un tempo godute dal ‘pubblico’ ai danni del ‘privato’ e non più sostenibili a causa delle mutate condizioni socio-economiche.
Ulteriore corollario della impostazione qui prospettata, sarebbe quella di ritenere che al privato sia consentita la presentazione della proposta di transazione fiscale, solo nell’ambito di una più ampia domanda di concordato preventivo, risolvendo così un quesito sorto sin dalla prima lettura della norma e mai definitivamente sventato. D’altra parte tale deduzione appare inevitabile già dalla semplice lettura della norma, nella quale l’assenso alla proposta transattiva, come già detto, viene subordinato a delle condizioni che sono espresse non già in maniera assoluta, ma che risultano, caso per caso, da un raffronto con il trattamento previsto per gli altri crediti, mancando i quali, sarebbe evidentemente inibita qualunque verifica sul rispetto delle condizioni medesime. Questa opinione, d’altronde, trova più che una conferma nella lettera dell’art. 182-ter, ove in principio, si afferma che il debitore può avanzare la proposta di transazione fiscale “Con il piano di cui all’articolo 160”, ovvero con la proposta di concordato preventivo.
L’impressione che il legislatore abbia voluto escludere ogni potere decisionale della P.A. nella applicazione dell’Istituto, è ulteriormente rafforzata dal fatto che, a ben vedere, non solo le condizioni per l’assenso sembrano già tutte compiutamente specificate nella norma, ma anche i dati tecnici su cui esse si basano, presentano una loro chiara determinatezza. Infatti, lì dove non è la legge a fornire la loro esatta configurazione (come avviene nel caso dei privilegi), i dati a cui il legislatore fa riferimento nel fissare le condizioni per l’assenso alla proposta (ovvero l’omogeneità di posizioni giuridiche e di interessi economici tra il credito tributario e gli altri crediti, nonché la loro suddivisione in classi), non necessitano di valutazioni tecniche della P.A., poiché sono elementi che già risultano dalla proposta del privato e sui quali, peraltro, al momento dell’intervento dell’amministrazione, vi è già stata una verifica da parte dell’autorità giudiziaria, chiamata alla valutazione preventiva sulla loro correttezza ai fini della stessa ammissione della domanda di concordato preventivo (cfr. art. 163, comma 1).
Di conseguenza, sembrerebbe potersi escludere ogni compito decisionale dell’amministrazione finanziaria che richieda esercizio non solo della discrezionalità propriamente amministrativa, ma che sia esplicazione anche della discrezionalità tecnica, la quale sarebbe richiesta nella valutazione dei dati tecnici che, come visto, il legislatore ha invece riservato all’autorità giudiziaria. In ciò, peraltro, si potrebbe ravvisare una certa evoluzione rispetto alla abrogata figura della ‘Transazione dei tributi iscritti a ruolo’, di cui all’art. 3, comma 3, D.L. 448/1998, la cui applicazione concreta sembrava proprio richiedere un compito della P.A. che necessitasse l’esercizio della sua discrezionalità tecnica. In questo caso, infatti, la decisione sull’accoglimento della proposta, era legata alla valutazione comparativa di due dati tecnici, ovvero quelli della ‘economicità e proficuità’, rispettivamente, della proposta di transazione e della riscossione coattiva. In un’ottica di tutela del cittadino, l’attuale sottrazione alla P.A. (anche) di compiti di valutazione tecnica, potrebbe essere senz’altro guardata con favore alla luce dell’orientamento giurisprudenziale, ancora maggioritario, che continua a negare la sindacabilità giurisdizionale delle scelte compiute dalla P.A. nell’ambito della discrezionalità tecnica.
In conclusione, si può affermare che la lettura sin qui proposta dell’Istituto, potrebbe avere il pregio di far dipendere la decisione sulla disposizione del credito tributario, non solo nella sua astratta previsione normativa, ma anche nella fase della concreta attuazione, esclusivamente dalla volontà del legislatore, recuperando così il pieno rispetto del principio di riserva di legge che regola la materia, con indubbi apprezzabili riflessi sul rispetto del principio costituzionale di uguaglianza.
Inoltre, essa offrirebbe la possibilità di comporre il contrasto tra la figura della transazione e il carattere indisponibile del credito tributario, giacché dalla impostazione qui prospettata tale carattere verrebbe ad assumere un valore relativo che potrebbe sintetizzarsi nella (ri)definizione di ‘INDISPONIBILITÀ DEL CREDITO TRIBUTARIO DA PARTE DELLA P.A.’.
L’indagine potrebbe, ancora, essere estesa all’esame di casi particolari, come, ad esempio, quello di un credito tributario dall’entità sproporzionatamente superiore rispetto alla somma degli altri crediti, per valutare se, in questo o in altri casi simili, dalla interpretazione proposta dell’Istituto, possano discendere conseguenze in qualche modo inaccettabili.
Sarebbe anche interessante, in una chiave prevalentemente didattica, un’analisi comparativa della Transazione fiscale, con altre figure transattive che il nostro ordinamento giuridico conosce, come quelle dell’Accertamento con adesione e della Conciliazione giudiziale di cui al D.Lgs. 218/97, al fine di valutare la compatibilità della complessiva impostazione in questa sede prescelta, con l’esistenza di questi altri istituti, avendo soprattutto riguardo al ruolo della Agenzia delle entrate.